Ipotizziamo il caso inverso

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Gli zingari sono l’unica categoria di esseri umani per i quali sopravvive, nella coscienza di tutti, un gigantesco doppio standard, una disumanizzazione che non avviene per nessun’altra categoria d’individui senza che questa incontri una fortissima censura in società.

È successa la cosa peggiore che possa succedere in un Paese civile. Il linciaggio. Un campo rom dato alle fiamme. La vendetta collettiva e biologica – per nascita. I migliori di noi s’indignano, che altro si può fare? I peggiori, invece, pensano – quante volte l’ho sentito dire – che però anche loro delle volte se la cercano. Tutto lì. Ma ipotizziamo il caso inverso.

Ieri a Torino è successa un particolare fatto di cronaca: una ragazza sedicenne, rom, ha denunciato uno stupro da parte di due ragazzi torinesi. In realtà, si è scoperto, si era inventata tutto.  L’ha fatto per tutelare il proprio buon nome: in famiglia le venivano imposte le norme culturali più retrive, con l’ossessione per la verginità. La zingara, perciò, aveva deciso di accusare due poveri ragazzi torinesi che non avevano fatto nulla di male.

Purtroppo, però, con la confessione non c’era stato il lieto fine. Nel frattempo venuti a conoscenza della notizia prima della smentita, un gruppo di zingari aveva organizzato una manifestazione, presto tramutatasi in una spedizione punitiva per andare a dare una lezione a questi torinesi. Questo gruppo di zingari aveva preso spranghe, bastoni e bombe carta e s’era diretta verso la zona residenziale del quartiere Vallette, dove abitavano i due. Prima che arrivasse la polizia avevano distrutto tutto, case e automobili di persone che non c’entravano nulla, e come degna conclusione del raid, avevano appiccato il fuoco a diverse abitazioni nella speranza di fare una strage.

Fosse successa una cosa simile, ipotizziamo, quali sarebbero state le reazioni? Si parlerebbe giorno e notte del pericolo che gli zingari pongono alle famiglie italiane; ci sarebbero rivendicazioni – da parte di tutti i partiti – della tolleranza zero e del pugno di ferro; i sondaggi di Italia 1 reciterebbero cose come “pensi che i rom siano geneticamente portati alla menzogna e alla violenza? sì 99% no 1%”; forse staremmo già discutendo dell’approvazione di leggi speciali per deportare tutti gli zingari che vivono in Italia da qualche parte nel globo.

Invece è successo all’opposto, e domani già non se ne parlerà più. Forse è il caso di pensarci, la prossima volta che succede un decimo di una cosa simile, ma a parti invertite.

Per insegnarti e per impararti

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Si parla tanto di “cambiamento culturale” per questo governo, in confronto a quello passato. L’ho notato anche io: certo, la sobrietà, ma quello sta diventando un cliché che si autoconferma (Obama non è sobrio, è semmai autorevole); la cosa secondo me più significativa è un’altra, ed è ben esemplificata da ciò che ha fatto Giarda nella conferenza stampa che annunciava la manovra. Parlo ovviamente del suo fact-checking, in cui il Ministro si è preso l’incarico di correggere gli errori o le incompletezze dei suoi colleghi. Mi è piaciuta anche la reazione di Monti («mi raccomando, correggi anche me»), mentre mi è piaciuta meno – dello stesso Monti – la reazione alla commozione di Fornero («commuoviti pure, ma correggimi»), pur appunto sottolineando anche qui il valore dell’essere corretti.

Questa cosa dell’accettare, e anzi incoraggiare, le correzioni degli altri – come un favore che questi ci fanno, e non come una cosa di cui offendersi – è il miglior stravolgimento “culturale” che ha portato questo governo, e penso che abbia molto a che vedere con l’estrazione accademica di molti di questi ministri: certo, anche nell’università ci sono gelosie e personalismi, ma non troverete nessun altro posto dove – durante una qualunque conferenza – tante persone facciano professioni d’ignoranza, o di consapevolezza d’ignoranza, come «sicuramente in questa stanza c’è qualcuno che ne sa più di me», «Mark Smith, correggimi pure, ché sei tu l’esperto nel campo», o understatement simili.

Che, come tutti sappiamo, non sono veri understatement, sono il riconoscimento – dicevamo – che insegnarsi le cose gli uni con gli altri, e quindi migliorarsi a vicenda, è una cosa non solo benvenuta, ma necessaria. Non ce lo vedo proprio Monti, o altri di questo collegio dei ministri, a usare espressioni stupide come “maestrini” o “non accetto lezioni“, per screditare chi non è d’accordo: chi meglio di loro sa che i maestri sono una cosa importante e bella, e che una lezione è il miglior regalo che qualcuno ci possa fare?

E invece ve lo immaginate cosa sarebbe successo – ma non sarebbe mai potuto succedere – se durante una conferenza stampa qualcuno si fosse azzardato a prendersi l’impegno di correggere Gasparri o Gelmini? O perfino Berlusconi, immaginate la faccia sconvolta dei varî yes-man che aveva intorno. Sarebbe andata a finire con una serie infinita di repliche piccate (“io non ho sbagliato!”), e poi imbarazzate (“non intendevo dire che sbagli…”), da persone convinte che l’importante sia l’aver avuto ragione e non l’averla ora.

Guevara chi?

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Ieri Benigni ha citato Pazienza che citava Che Guevara. Che la citazione fosse di Che Guevara, Benigni non lo sapeva, o forse se l’era scordato. E forse anche noi ci siamo un po’ scordati di Che Guevara, nelle camerette di tanti di noi fino a qualche anno fa. Tanto che ci si chiede, per scherzo, «Che Guevara chi?». C’è un posto, però, dove Che Guevara è sempre di moda. Ancora più di quanto non lo sia stato qui, tanto da intitolargli vie, figli e negozî. Questo posto è la Palestina, dove lo chiamano Givara (lo pronunciano così), e dove scattai questa foto, all’alimentari Guevara. C’è una cosa che non bisogna dire, però, in Palestina: che Givara era ateo, quella cosa lì non la possono credere.

È forse un peccato che gli adolescenti di sinistrasinistra abbiano perso questo tipo di icone in favore di altre più postmoderne, conservatrici e anti-illuministe. Che Guevara era un vero marxista: progressista, internazionalista e guerrafondaio.

Fornero

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Se avesse riso come per il terremoto all’Aquila, beh guarda che farabutta.
Se avesse fatto una faccia serena, beh guarda come non gliene frega niente.
Se avesse fatto una faccia imperturbabile, beh guarda che insensibile.
Se avesse fatto finta di niente, beh guarda come occulta la verità.
Se si è commossa, beh guarda che donnetta instabile che non può fare il ministro (e, giusto per contraddirci nello spazio di cinque minuti, comunque sono lacrime di coccodrillo!).

Core de ‘sta città: Fiorentina-Roma 3-0

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Chi non capisce il tifo contro, non capisce il tifo. E chi non capisce il tifo, non capisce il calcio.

La spiegazione breve è che, per ciascuno di noi, le squadre avversarie non sono i calciatori o la città; no, sono gli amici che tifano quella squadra lì. Se non c’è nessuna persona a cui vuoi bene da prendere in giro, o da cui essere preso in giro, è come giocare a Risiko da soli: ma che gusto c’è? La spiegazione lunga è qui, e ve l’andate a leggere, se ne avete voglia.

FIORENTINA Capirete bene, quindi, che per un tifoso della Fiorentina che ha passato infanzia e adolescenza a Roma, Fiorentina-Roma è la partita dell’anno (infatti mi ero presentato in tenuta da combattimento). Più che Fiorentina-Lazio per due ragioni, così da far arrabbiare entrambi: perché i tifosi romanisti sono i più lamentosi d’Italia, qualunque partita, anche persa cinque a zero, è sempre colpa dell’arbitro, del palazzo, della sfortuna. E quindi è molto più bello batterli. La seconda è che la squadra al governo a Roma è la Roma: la Lazio è tutt’al più opposizione. E difatti, nonostante sia cresciuto a Roma Nord, conosco molti più romanisti.

Oggi la Fiorentina ha battuto tre a zero la Roma, e lo ha fatto nel migliore dei modi. Dimostrando la netta inferiorità della Roma. È importante: la partita non ha dimostrato la superiorità di una squadra vigliacca e senza gioco come la Fiorentina – di quello chissene frega –, no ha dimostrato la netta inferiorità di una Roma che ha giocato in maniera nulla, noiosa e irritante, nervosa e svogliata, irascibile e lagnosa, insomma ha giocato e perso da romanista, e questo sì che è ragione di gioia.

Ciò vale per la squadra, che ha finito la partita in otto uomini (e doveva finire in sette) e ha regalato due rigori alla Fiorentina (e dovevano essere tre). Ma c’è qualcosa di ancora più bello, e cioè che una sconfitta simile ha talmente traumatizzato i tifosi romanisti da averli completamente snaturati: li ho sentiti – naturalmente ho finito il credito a forza di telefonate e messaggi agli amici di una vita – mesti, rassegnati, arrendevoli. Quel rosicamento sommesso che regala una soddifazione speciale all’amico-avversario: non una lamentela, una critica all’arbitro, nessun piove-governo-ladro (eppure pioveva a dirotto e il governo passava la manovra!).

Per me la stagione è finita. Il campionato non può dare molto altro: se anche vincesse la Roma al ritorno, noi avremmo vinto all’andata, e per tre a zero. Basta così. E l’indirizzo della partita è stato talmente chiaro che, per tutti, la soddisfazione non è celebrativa di sé, è nello sfottò agli altri. Mentre si viaggia, sui treni in Toscana, si canta – la base è Cristina D’Avena –un-due-tre un-due-tre un-due-tre-tre questo è il valzer del romanista (notizie di prima mano).

E, come detto, vale all’inverso: a Roma della partita non ne parlano, cosa inaudita, neanche per lamentarsi. Sanno che se la possono prendere solo con loro stessi. Sanno che non hanno niente su cui possano recriminare, al di fuori della propria squadra. Sanno che se fosse stato un match di Pro Evolution Soccer si sarebbe detto che il giocatore che teneva la Roma aveva il tasto “quadrato” rotto. Sanno di aver deliberatamente buttato una partita contro una squadra cadavere. Sanno che l’hanno persa loro, e hanno fatto di tutto, per perderla. Sanno che se fosse scesa in campo solo la Fiorentina sarebbe finita 0-0. Non c’è soddisfazione più bella. Grazie, Roma.

Prigionieri del loro stesso fascismo

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Fascismo è una delle pochissime parole italiane che siamo riusciti a esportare in tutto il mondo nell’ultimo secolo, anzi è l’unica che mi venga in mente: che orgoglio, eh? Qui in Italia, luogo d’origine, si è molto più precisi, e perciò un fascista è quello col libro e il moschetto, viva il Duce e camicia nera. E ha certamente senso che sia così. Però, nel mondo, quella parola vuol dire un’altra cosa. E vuol dire esattamente questa cosa qui, quella che è successa al signore qui accanto. Chiedete a qualunque anglofono (ma anche francofono, immagino) qual è il significato di “Fascist behaviour”: vi descriverà proprio il trattamento che questi cavernicoli hanno riservato a Oscar Giannino.

Giannino – un liberale ottocentesco fino alle scarpe, e che per questo delle volte dice cose sbagliate – dovrebbe fare un nuovo incontro alla Statale di Milano, ma farlo un po’ diverso. Questa volta dovrebbe andare lì non a parlare di economia, ma a fare una bella lezione sulla filosofia dei pensatori cardinali del liberalismo sei-sette-ottocentesco, su cosa voglia dire per loro la libertà.

Christopher Hitchens, che è il più bravo di tutti, è riuscito trovare la frase che meglio potesse riassumere il significato di tre secoli di liberalismo, nell’Areopagitica di John Milton, in The Age of Reason di Thomas Paine, in On Liberty di John Stuart Mill. Hitchens dice che il senso profondo di questi tre libri è racchiuso in un concetto, che lui esprime così:

Non si tratta soltanto del diritto della persona che parla a essere ascoltato, è il diritto di tutti coloro che sono nel pubblico a poter sentire e ascoltare. Ogni volta che zittisci qualcuno ti rendi un prigioniero della tua stessa azione, perché ti neghi il diritto di ascoltare un’altra opinione.

Il commento del mese

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Tiro fuori il blog dalla perdurante abulia per menzionare il commento del mese, scritto da uqbal sul blog di Francesco, in risposta a chi – non è importante il contesto –, alla fine di un ragionamento sull’esclusione di alcuni temi dal dibattito, gli contestava che fosse “Tutto legittimo per carità, ma vediamo di non essere ingenui”:

e invece vediamo proprio di essere un po’ più ingenui, perché non se ne può più delle continue analisi dietrologiche che spesso fanno somigliare la sinistra ad una Lega capace di usare i congiuntivi.

Hope!

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per qdR magazine

A profezie non ci becco. La fine di Berlusconi non me l’aspettavo così, e in realtà non me l’aspettavo proprio. E, anzi, me l’ero già aspettata diverse volte: nel 2006 l’avevo dato già per finito. Quello che più ancora non mi aspettavo è che un ventennio così diviso e fratricida, in cui il primo – e talvolta l’unico – indizio della collocazione politica di ciascuno era “cosa ne pensi di Berlusconi?”, finisse con una compattezza d’intenti e di disposizione al sacrificio che dà speranze sulla salute di questo Paese – un’altra profezia che avevo sbagliato. Sembra quasi che ci sia una chance che le scorie di questo ventennio non rimangano in circolo quanto invece ci eravamo immaginati.

Naturalmente ci sono le eccezioni, la Lega che pare tornata alla versione populista d’inizio anni ’90 che parla di “quei signori” intendendo quelli che vogliono mettere a posto un Paese che loro hanno governato negli ultimi x anni. Ma anche questo potrebbe essere un segno positivo: nessuno, se ci fate caso, chiede ai leghisti di assumere una posizione più ragionevole, sembra diano quasi per scontata la parabola discendente che li riporti a essere il partito spazzatura, assimilati a Le Pen in Francia o Haider in Austria, come succedeva vent’anni fa: con un suffragio neanche troppo basso, gli egoisti ci sono in tutti i Paesi, ma escluso dal processo decisionale dalla buona volontà degli altri.

Vendola, pur agitando alcune parole d’ordine prepolitiche, sembra non voler cavalcare una situazione che pure potrebbe sfruttare populisticamente: non avendo nessuno in Parlamento, e quindi nessuna responsabilità fattuale di fronte all’emergenza, avrebbe la possibilità di attaccare tutte le misure più necessarie ma impopolari. Che è quello che voleva fare Di Pietro, ma che la sua stessa base – altro segnale positivo – ha forse convinto a ripensarci, almeno parzialmente, per senso di responsabilità.

Non solo abbiamo scoperto di avere un Presidente della Repubblica eccezionale, che non ne ha sbagliata una: e non era per nulla facile fare né troppo né troppo poco, dovendosi rapportare a questo Berlusconi; non solo in giro si sentono tanti che hanno un nuovo atteggiamento positivo verso l’Europa, come l’unica àncora di salvezza che in effetti è, e non come una aliena burocrazia che ingerisce per far togliere il crocifisso; ma c’è qualcosa di catartico nell’unione d’intenti Bossi-La Russa-Di Pietro-Diliberto, come se in qualche modo le cose tornassero al loro posto.

Il timore era sempre stato che Berlusconi lasciasse un’Italia segnata dal proprio passaggio, sia a destra che a sinistra, dove in barba alla propria storia si era cominciato semplicemente a dire l’opposto di Berlusconi, specie sulla giustizia (ma anche sull’economia), un po’ come era stato con Bush sulla politica estera. Se, come diceva Gaber, riusciremo a emanciparci non da Berlusconi in sé, ma da Berlusconi in me, in noi, nella nostra società, avremo davvero un bacino di speranza – e di buona volontà – a cui attingere, nonostante i tempi duri che inevitabilmente ci aspettano. L’auspicio è che Monti riesca a distribuire con equità, anche sui bersagli più difficili, la cura di austerità di cui è costretto a farsi medico. A giudicare in anticipo, però, non sembra esserci momento migliore per fare cose giuste ma impopolari, come toccare le varie rendite di posizione.

Naturalmente non bisogna peccare di ottimismo. Ci sono tantissime ragioni per essere pessimisti, e sono forse di più che quelle per sperare in bene. Però le ragioni per essere pessimisti c’erano già prima, l’ottimismo invece è una sensazione nuova.

Scontentiamo tutti

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Ci sono diversi modi per tentare di risanare i conti di uno Stato che è in rosso, e questa la sarà scelta che Monti si troverà ad affrontare. Ci sono misure su cui tutti sono d’accordo, come la lotta all’evasione fiscale o il taglio dei costi della politica (e quindi non ne parlo qui, non vedo possibili obiezioni), e altre che invece scontentano una parte o l’altra: chi vuole un risanamento di marca più socialista pensa principalmente a una tassa patrimoniale e alla reintroduzione dell’ICI, chi lo vuole di marca più liberale pensa principalmente alla revisione dell’articolo 18 e all’aumento dell’età pensionabile. Io dico: scontentiamo tutti.

EQUITÀ E MERITOCRAZIA
Facciamole tutte, queste misure, perché il risanamento di cui ha bisogno l’Italia è sostanzioso. Alcune sono già nella legge di stabilità approvata da Berlusconi prima di dimettersi, l’auspicio è che vengano rafforzate. Ma anche – e più importante – perché questo Paese manca di due cose: equità e meritocrazia. E, al contrario di quello che pensano molti in Italia, sono due cose inestricabilmente interconnesse.

Equità vuol dire che tutti abbiano le stesse possibilità di partenza, che anche l’operaio possa volere il figlio dottore. Ma vuol dire anche che ciascuno abbia il miglior servizio possibile dalla società in cui vive. Meritocrazia vuol dire che il criterio con cui si scelga chi far operare sia quello del merito, e nessun altro. Che quindi siano limitati il più possibile tutti gli altri fattori, in particolare quello del censo. Ma questo principio – non ci scordiamo – non è un principio astratto o suprematista: noi non vogliamo premiare i più bravi perché sono più bravi, noi li vogliamo premiare perché fanno il miglior servizio possibile alla società. Un architetto migliore fa i ponti migliori, un dottore migliore cura meglio la gente, un pizzaiolo migliore fa la pizza più buona. Incentivare i migliori conviene a tutti.

ICI
Non c’è nulla da fare, in un Paese stagnante e in cui nessuno investe, la differenza la fa il mercato immobiliare. Gli affitti costituiscono spesso il 30 o anche il 40% di uno stipendio: questo vuol dire che chi ha una casa di proprietà, quasi sempre ereditata, ha uno stipendio notevolmente più alto. E questo vale ancora di più fra i giovani: se mamma e papà hanno una casa da darti, o ti pagano l’affitto, puoi permetterti di andare in un’altra città a studiare. Altrimenti devi lavorare prima e poi fare l’università, oppure assieme, ma con meno efficienza per entrambe. Finiti gli studî vale la stessa cosa, ed è il motivo per cui questo esercito di fantomatici “bamboccioni” non si muove da casa dei genitori. Chi si può permettere un affitto con gli stipendî da fame che hanno i ventenni in questo Paese? Pochissimi: la differenza fra chi può e chi non può la fa soltanto l’avere genitori (o i nonni) che ti lasciano la casa. Questo non ha nulla di meritocratico.

PATRIMONIALE
Il principio è lo stesso. A noi sta bene che ci siano persone che guadagnano di più, se questo servizio è importante per la società – ad esempio, dovremmo pagare molto di più gli insegnanti, che vorrebbe anche dire averne di migliori, ci sarebbe più concorrenza per il posto, più specializzazione –, il problema non è quanto uno guadagna, che qualcuno guadagni tanto è parte di un sistema virtuoso. Però ci sono persone che la propria ricchezza l’hanno ereditata e non se la sono guadagnata facendo un servizio alla società. Un po’ siamo tutti così, perché da bambini sono i nostri genitori a crescerci e comprarci i vestiti, ma sarebbe bene limitare questo principio il più possibile. Rispetto a ciò è ovvio che fare una tassa sul patrimonio colpisce di più i patrimonî accumulati rispetto a un innalzamento delle tasse (sullo stipendio). Il primo sono le entrate passate, il secondo quelle correnti. Se c’è un’emergenza, ha più senso ricorrere alla prima.

ARTICOLO 18
Nel 2002 ero alla famosa manifestazione di Cofferati: sbagliavo. In Italia c’è un sistema a due velocità, e sono due velocità enormemente differenti: la prima è una Ferrari, la seconda è un triciclo. Le persone con un contratto a tempo indeterminato, sono la larghissima maggioranza degli over 40, sono la classe più tutelata del mondo. E poi ci sono quelli che sono arrivati dopo, gli under 40, che sono la classe meno tutelata nel mondo occidentale. Che queste due condizioni possano coesistere, nella stessa economia, è il più grande sintomo del male dell’Italia: la difesa corporativa. Ciascuno difende sé stesso e i proprî privilegi, e quando bisogna chiedere sacrifici, li si impongono a chi non si può difendere, a quelli che verranno. Siccome l’economia italiana non poteva più reggere con le chiusure che la caratterizzavano, si è deciso di flessibilizzare, però ognuno ha difeso il proprio – i sindacati hanno difeso i loro iscritti – e alla fine è stato colpito soltanto chi già da prima aveva poco: a forza di co.co.co e nessun ammortizzatore sociale, in quella che è davvero la precarietà. Eppure il principio dovrebbe essere semplice: ho bisogno di una baby sitter? Assumo una baby sitter, perché ho quel bisogno. E se quel bisogno non c’è più? Devo mantenere a pagarla anche se non mi serve più? Questo concetto è chiaro sotto ai 15 dipendenti, non si capisce perché non debba valere al di sopra. Un’economia in cui nessuno è avvantaggiato è un’economia che si può permettere dei sussidî per questo standard a tutti, se invece è solo una classe ad avere delle tutele (che costano alla società), quel costo sarà pagato interamente a spese dell’altra (senza offrire nessuna garanzia). Vogliamo che siano, ancora una volta, quelli che non hanno a pagare le tutele di quelli che hanno?

ETÀ PENSIONABILE
Anche qui vale lo stesso discorso: ci sono quelli che hanno la pensione a 65 anni e quelli che non si sa quando ci andranno (se continua così, 120). Perché, è ovvio, il costo sociale di andare in pensione prima è a carico di tutti gli altri, i soldi non si inventano. Se abbassassimo l’età pensionabile a 30 anni, il costo di quelle pensioni dovrebbe essere pagato – col proprio lavoro – dai lavoratori che hanno fino ai 30 anni. Perciò si tratta di decidere: ripartire equamente quel sacrificio necessario o farlo soltanto a carico di quelli che verranno? E, se ci si pensa, qualunque procrastinazione del tipo “età pensionabile a 67 anni nel 2050 (ma anche 2027)” è qualcosa di eticamente scandaloso: vuol dire che c’è bisogno di un sacrificio, ma questo sacrificio lo si chiede solo ad alcuni, e il pagamento di questo privilegio fino alla data in questione, cioè il costo di quei due anni di meno fino al 2027, la pagano gli esclusi. C’è chi obietta che questo vorrebbe dire venire meno al patto sociale, perché quelle persone hanno cominciato a lavorare con delle prospettive precise offertegli dalla generazione precedente (a cui loro hanno pagato la pensione). Bene: ma se quella promessa era fasulla mica se la possono rifare con quelli dopo, mica si può ripetere – e anzi aggravare – lo stesso inganno. Quel patto non è stato fatto con chi ora ha 5 anni, è stato fatto con chi ora ne ha 85: e però a pagare la pensione sarà il primo. Come si fa a chiamare questo equità?