Lunedì degli aneddoti – XVIII – Botta di culo

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Botta di culo

Poche cose si portano dietro un numero tanto alto di storielle come le sigarette Lucky Strike. Così tante che ognuno ha la sua. C’è chi dice che si chiamino così perché talvolta nei pacchetti si poteva trovare – al posto di una sigaretta – una canna, e che questo costituisse il colpo di fortuna. C’è chi dice che lo “strike” in questione sarebbe uno sciopero particolarmente fortunato dei dipendenti della fabbrica. E c’è la mia preferita, quella che fa risalire il nome di queste sigarette, la cui peculiarità è la tostatura del tabacco, a un incendio che avrebbe distrutto il capannone dove erano stipate tutte le riserve di tabacco, finite così arrosto. L’impossibilità di buttare tutta quella materia prima avrebbe convinto i proprietarî a prepararne comunque delle sigarette, e che queste sigarette – con la specialità del tabacco tostato – avessero avuto un successo così grande da convincere i produttori a sottoporle sempre, di lì in poi, allo stesso trattamento. Il lucky strike, il colpo di fortuna, o più ancora, la “botta di culo” sarebbe stato quell’incendio.
C’è però una storia, un aneddoto, che è accertatamente vero. O meglio, accertatamente falso. Nel senso che furono proprio quelli della Lucky Strike a menare il can per l’aia.
Agli inizi degli anni quaranta le Lucky Strike avevano un pacchetto verde, con al centro il classico cerchio rosso. Delle indagini di mercato avevano però suggerito che un colore più neutro, come il bianco, avrebbe potuto attirare maggiormente i clienti, in particolare quella femminile che al tempo si stava timidamente affacciando al vizio del tabacco. Ma come giustificare il cambio di colore agli occhi dei clienti più tradizionalisti?
L’America era appena entrata in guerra, e tutto il paese – all’indomani del repente attacco a Pear Harbour – era concentrato nell’impegno bellico: così, nei primi mesi del ’42, le Lucky Strike cambiarono colore, passando dal verde all’attuale bianco, e la modifica cromatica fu accompagnata da uno slogan che fu pubblicizzato su radio e giornali: “Lucky strike green has gone to war”, il verde delle Lucky Strike è andato in guerra – visto che la vernice verde, a base di rame, serviva allo sforzo bellico la società aveva fatto questa scelta patriottica; questo dissero.
In realtà non era vero niente – come non era vero che il nuovo colore, bianco con il cerchio rosso al centro fosse stato scelto in spregio al Giappone – e il verde della vernice non aveva nulla a che vedere col rame necessario per fare la guerra. La scelta di marketing, però, si rivelò un successo: le nuove Lucky Strike “guerrafondaie” vendetterò quasi la metà in più rispetto alle stagioni precedenti. E non per un colpo di fortuna.

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Lunedì degli aneddoti – XVII – La caduta del Muro

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

La caduta del Muro

Il mondo finì il nove novembre del 1989, vent’anni fa. Finì come non ci si aspetterebbe mai che finisca un mondo, per caso, quasi per sbaglio. Di mondi – a quel tempo – ce n’erano tre, e a finire fu il secondo: povero come il terzo mondo, ma potente come il primo.
Fini a Berlino, con il crollo del Muro. Un crollo il cui rumore impiegò un paio d’anni per attraversare tutto il globo, ma un crollo inesorabile, ancora più significativo perché avvenuto dal di dentro al di fuori, e non il contrario. Uno non ci pensa mai, considera il Muro di Berlino come il Muro di Berlino Est: e invece no. Era il muro che circondava completamente quel piccolo lembo di Germania orientale, Berlino, che era sempre rimasta libera.
Non è vero che tutto accadde per caso, né che le coincidenze furono determinanti per l’intero corso della storia, ma l’ultima picconata, sì, a quel muro la diede un insieme di coincidenze che fecero finire in commedia rocambolesca quello che era stato un regime fondato sulla più nociva coazione all’organizzazione.
Erano i mesi successivi all’estate dell’89, che era stata l’estate di manifestazioni per la libertà e apertura di frontiere limitrofe. In agosto l’Ungheria dischiuse le frontiere, con l’effetto di ritrovarsi migliaia di tedeschi dell’est che volevano fare il giro per poter andare nella sorella Germania. Operazione fino ad allora vietata, l’attraversamento, e impresa nella quale molti erano rimasti uccisi e altri erano riusciti con i metodi più strani, come una mongolfiera che scavalcasse il muro.
A quel punto nella DDR si studiarono misure per contenere le manifestazioni, e si arrivò ad una conferenza stampa nella quale si sarebbero annunciate dei provvedimenti di concessione in questo senso: ma Günter Schabowski, colui che teneva la conferenza stampa, non aveva partecipato alla riunione in cui il provvedimento era stato pianificato e si era trovato a descriverlo senza padroneggiarlo.
Al termine della conferenza stampa un giornalista chiese: «ma quando entreranno in vigore queste misure?». Schabowski rispose: «per quanto ne so, ora». Immediatamente dopo l’annuncio fallace, che tutta la Repubblica Democratica Tedesca aveva ascoltato per televisione, una marea di persone affollò i varî punti di passaggio per chiedere di avere concesso ciò che il funzionario socialista aveva loro accordato.
Le guardie di frontiera furono prese alla sprovvista da quella folla di gente che si sentiva in diritto di passare di là, e non poterono far altro che aprire le frontiere.
La sera del 9 novembre tutta Berlino Est si riversò dentro a Berlino Ovest, producendo in un attimo quella commistione che era mancata per almeno trent’anni. All’improvviso arrivare dei tedeschi dell’est, quelli dell’ovest poterono fare soltanto una cosa: offrire birra gratis a tutti.
Buon anniversario anche a voi.

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Lunedì degli aneddoti – XVI – Gagarin, patente e libretto

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Gagarin, patente e libretto

«La Terra è blu, è stupenda», Yuri Gagarin la disse veramente questa frase quando divenne il primo uomo a orbitare intorno al nostro pianeta. Quell’altra, «non vedo nessun Dio quassù», gliela mise in bocca Krusciov, poi, anche se l’effetto retorico c’era.
Quella mattina lo svegliarono e gli dissero «ehi bello, oggi vai nello spazio». Chi non vorrebbe essere svegliato da una notizia del genere? Beh, non tutti, perché le possibilità che la missione andasse in porto erano cinquanta e cinquanta, e se fosse saltato fuori croce, come dicono nei western, l’astronauta c’avrebbe lasciato le penne.
Lyndon Johnson, che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti di lì a poco, diceva che non bisogna mai rifiutare due cose: un invito a cena, e un’occasione per fare pipì.
Un consiglio che sarebbe servito anche a Gagarin, quella volta, perché il suo bisogno fece registrare il primo imprevisto in una missione così delicata: Gagarin si fermò, prima di raggiungere la sua capsula, per fare la pipì. Una sosta, divenuta un rito ancora oggi praticato da ciascun astronauta russo in partenza.
Così, a 27 anni, Yuri Gagarin diventò il primo uomo ad andare nello spazio, un’ora e mezzo di volo e un atterraggio non proprio previsto, in un campo, dove dovette convincere due contadini di non essere un nemico venuto dallo spazio. Ci si misero, poi, anche dei soldati, che non lo riconobbero e gli chiesero i documenti.
Alla fine ce la fece, Gagarin, ad avere il meritato tripudio, venne accoltò a Mosca come un paladino al quale furono tributati tutti gli onori, fra cui un pilota personale – Seregin – che doveva tutelare i voli dell’astronauta per garantirne l’incolumità e preservare così la vita dell’eroe nazionale.
L’ironia, o la cattiveria, della sorte raccontano che l’espediente non funzionò tanto bene perché fu proprio un volo pilotato da Seregin, sette anni più tardi, a schiantarsi al suolo mettendo fine alla vita propria e a quella di Gagarin.

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Lunedì degli aneddoti – XV – Servizî segretissimi

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Servizî segretissimi

Il Mossad, quello israeliano, è considerato il servizio più segreto del mondo. Quello più efficiente, che è dietro a qualunque cosa. Se c’è qualcosa di poco chiaro, nel mondo, state sicuri che c’è sempre qualcuno che se ne esce con «è stato il Mossad!». Del resto, essendo un servizio segreto, meno le proprie attività  vengono rese pubbliche, più vuol dire che sta funzionando: e così chiunque ha buon gioco a dire che c’è dietro un complotto: «è il Mossad!» «Ma non c’è nessuna prova!» «Appunto!». Appunto.
È vero, però, che il Mossad ha – forse anche più della Cia, che si è spesso limitata a sovvenzionare dittatori – orchestrato azioni inverosimili, e perciò – quale cosa se ne pensasse – spettacolari: dal raid di Entebbe, al bombardamento del reattore di Osiraq, passando dalla cosidetta Lista di Golda Meir, fino ad arrivare al celeberrimo rapimento di Eichman. Tutte azioni pianificate o orchestrate dal Mossad assieme, ovviamente, alle divisioni dell’esercito israeliano.
La storia del Mossad non è fatta solo di successi però, e non tutti i suoi funzionarî hanno sempre dato prova della massima arguzia. Come quella volta, una decina d’anni fa, a Ginevra: il servizio segreto israeliano aveva mandato una sua cellula in Svizzera per monitorare un presunto uomo legato a Hizballah, il tutto ovviamente all’insaputa delle autorità elvetiche, note per la propria neutralità. Il capo di questa cellula aveva a disposizione quattro uomini, cioè, non tutti uomini, anche una donna. E qui veniamo al punto. Avevano pianificato tutto, il giorno in cui l’uomo sospettato non sarebbe stato a casa per tutto il giorno, e avevano deciso di intrufolarsi, in tre, e mettere delle microspie per tracciare le sue conversazioni. E gli altri due? Beh, gli altri due dovevano star fuori a fare i pali, e cioè a controllare che non arrivasse la polizia. Però quelli del Mossad non erano mica stupidi. Due persone lì davanti, a girellare intorno, avrebbero destato sospetti. Come fare a evitarlo? Beh, grande idea, viene al boss. Li mettiamo dentro una macchina – un uomo e una donna – ad amoreggiare, più normale di così!
Bella l’idea, ma il tipo non aveva fatto i conti con il contegno di una donna, molto perbene e molto svizzera, che non approvava: la signora chiamò la polizia denunciando due giovani che, davanti al proprio domicilio, si comportavano “in modo poco consono”.
Così, fra un bacio e l’altro, arrivò la polizia e il piano del Mossad andò in fumo.

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Lunedì degli aneddoti – XIV – Il barile si ferma qui

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Il barile si ferma qui

In Italiano deriva da un gioco di bambini che si faceva anche secoli fa, e si dice scaricabarile. È un’operazione di cui spesso accusiamo i politici – non a torto – ma a cui siamo tutti cagionevoli: la colpa è sempre di qualcun altro, e il barile viene passato di braccia in braccia fino a non capire chi ne è il responsabile.
Al contrario, una delle cose che si dice sempre dell’inglese è che sia l’unica lingua in cui esiste la parola “accountability”, che vuoldire qualcosa come “avere le piene responsabilità di”, ma un po’ di più; e che questo sia mostra della maggior attitudine alla responsabilizzazione degli anglosassoni.
Tuttavia lo scarica barile c’è anche in inglese, e si dice “to pass the buck”. Il “buck” però non è un barile, ma una sorta di segnaturno del poker. E fu proprio un giocatore di poker che regalò al Presidente Truman la piccola insegna che comparve sulla scrivania di Truman, destinata a rimanerci per entrambi i mandati: anche negli Stati Uniti succede che i politici si scarichino il barile della responsabilità di qualche provvedimento – l’unico che non può farlo, per ovvie ragioni, è il presidente.
Esattamente con questo intento, a significare che la responsabilità ultima fosse soltanto sua, Harry Tryman portò nello Studio Ovale il fermacarte con la frase divenuta oramai celebre e di uso comune negli Stati Uniti: Il ‘barile’ si ferma qui. “The buck stops here”.

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Radio star 3

Questa è la trasmissione di venerdì scorso che non era stata messa online fino a oggi, io apro e chiudo questo spezzone. Ho lasciato intatto il file perché mi sembrano interessanti anche gli altri interventi, Claudia Sterzi su Ayaan Hirsi Ali (!) e Alessandro Litta su Armania-Turchia dentro al mio.

Come al solito premere play sul file qui sotto:
Non c’è pace senza giustizia 8 ottobre

(Domani sera metto quella di domani: ovviamente se la volete sentire direttamente in radio, su Radio Radicale domani alle 13.30)

Lunedì degli aneddoti – XIII – Lo sconosciuto che salvò il mondo

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Lo sconosciuto che salvò il mondo

Avete presente come andò quando la FIFA mise il golden gol? Era quella cosa fatta per fare sì che i supplementari fossero più movimentati e finissero prima, appena una delle due squadre segnava. Ma visto che tutti avevano il terrore assoluto di prenderlo, il gol, si vedevano sempre 30 minuti di catenaccio in cui nessuna delle due squadre ci pensava neanche, ad attaccare. La Guerra Fredda funzionava un po’ così.
Tutti avevano un sacco di armi – atomiche – ma sapevano che se l’avessero utilizzate, sarebbero stati annientati l’attimo dopo. Alla distruzione del proprio nemico sarebbe seguita la propria distruzione. Una volta Kennedy disse a Kruschev «abbiamo armi per distruggere 30 Russie», la risposta fu caustica: «noi abbiamo armi per distruggere un’America: e ci basta».
Quello che diceva Kruschev era vero, e la strategia era davvero molto chiara: la prima cosa da fare, in caso di un possibile attacco nucleare americano, era scaricare tutto il proprio potenziale atomico sull’America. Così, in ogni momento, c’erano soldati di guardia ai radar puntati sugli Stati Uniti.
La notte del 26 settembre 1983 a controllare il radar c’era il colonnello Stanislav Petrov, come ogni notte aveva il dovere di avvisare i superiori qualora avesse scorto un lancio di missili americani in direzione russa. Era una notte tesa, quella: qualche giorno prima un aereo coreano con a bordo diversi americani era stato abbattuto, e il KGB aveva fatto circolare un’informativa in cui si metteva in guardia da un possibile attacco americano a breve.
E quella notte un missile, in partenza dal Montana, apparve sul radar. Petrov ci penso un attimo e concluse che un attacco nucleare non sarebbe stato lanciato con un solo missile, e soprassedette. Ma qualche minuto dopo apparvero altri quattro segnali di missili in direzione del territorio russo.
La comunicazione che cinque missili erano stati lanciati dagli USA contro la Russia avrebbe certamente scatenato un massiccio bombardamento nucleare su varie città degli Stati Uniti secondo la dottrina della reciproca distruzione assicurata. La reazione americana non si sarebbe fatta attendere più di cinque minuti, e con essa la Terza Guerra mondiale. Sembra un film, ma è successo davvero.
Petrov decise, anche la seconda volta, che si trattava di un falso allarme, e non allertò nessuno. Vero è che dall’altra parte dell’oceano Ronald Reagan non aveva premuto nessun bottone rosso, e il falso positivo era stato dato dall’unico caso nella storia di errore dei saltelliti con orbita Molniya: Petrov aveva ed ebbe ragione.
Si dice che, in principio, Stanislav Petrov non fosse di turno quella notte: chissà come si sarebbe comportato un altro al suo posto.

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Suggerito da Francesco