Israele-Palestina come all’Ikea

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Dico spesso che la pace fra Israele e Palestina è facile, talmente facile che sappiamo da un sacco di tempo come sarà, che la si faccia oggi o fra cento anni. Ciò che manca è la volontà, e la disposizione alle rinunce, di entrambe le parti. Per scherzo dico sempre, a quelli con cui ne parlo, «se ci andassimo io e te, a farla, la pace, la faremmo subito», perché spesso è difficile rendersi conto di quanto piccolo sia il margine che divide la trattativa, di come i prendere-o-lasciare vertano su pochi metri quadri, a fronte – invece – di rancori, cinismi, paure, dogmi religiosi – le cose che bloccano davvero il processo di pace.

Jacopo Ottaviani mi ha segnalato un tool bellissimo, is Peace Possible?, in cui si può costruire la propria road-map-fai-da-te, decidendo quali insediamenti annettere e quali no. Per un impallinato di mappe, con un grande interesse per quel conflitto, è la cosa definitiva. La mappa parte dai territorî israeliani post 48, e permettere di scegliere quanti dei territorî conquistati alla Giordania nel ’67 Israele potrebbe annettere (per l’Onu lo 0%, per l’accordo di pace di Camp David-Taba il 5%), che è esattamente ciò che si sono trovati a trattare – nei fatti – i rappresentanti dei due popoli in tutte le trattative negli ultimi decennî.

Per la rubrica “l’angolo del cavillo”, di cui sono appassionato fan, ci sono due piccole mancanze che, comunque, non inficiano l’utilità della strumento: la zona cuscinetto del ’48, attorno a Modi’in che è convenzionalmente considerata israeliana, viene qui ascritta alla Palestina, condizionando un pelino le percentuali; e non è prevista la possibilità di dare territorio israeliano ai palestinesi, in cambio delle colonie più grandi, cosa che era stata vagliata con concretezza in tutte le proposte di pace.

 

Perché il voto all’ONU sulla Palestina è una cosa buona

per il Post

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Il problema del conflitto israelo-palestinese è sempre stato che le due parti non hanno mai voluto la pace: per essere garbati, questo pensiero si formula con “non sono disposti a fare le concessioni necessarie alla pace”, che però vuol dire la stessa cosa. Più precisamente, non hanno mai voluto la pace nello stesso momento: ogni tanto una delle due parti si è mostrata più disposta a trattare, ma questa buona disposizione non è mai venuta in contemporanea.

Questo non è un caso: da sempre il conflitto arabo-israeliano è un conflitto che non si basa sulla conciliazione, ma sulla dimostrazione di forza. L’Egitto non avrebbe mai accettato la pace con Israele, se Israele non si fosse dimostrato invincibile, nel ’48, nel ’56, nel ’67. Ma Israele non avrebbe accettato la pace con l’Egitto se, nel ’73, non avesse avuto la dimostrazione che gli egiziani non avrebbero perso per sempre. Si può dire la stessa cosa della Giordania, e di tante piccole vicende nelle quali la pace è sempre stata una resa al realismo: non c’è modo di liberarcene, dovremo conviverci.

Per questo, e per quanto cinico possa sembrare, ciascuna delle due parti rimaste – Israele e Palestina – è sempre stata disposta a fare concessioni nel momento di maggior forza (contrattuale, non necessariamente militare) della parte avversa. È un circolo vizioso nel quale, ineluttabilmente, quando una mano si avvicina l’altra mano si allontana, ed è un meccanismo che difficilmente verrà spezzato dalle due parti in causa, specie se si considera la totale sfiducia reciproca maturata negli anni. È perciò una coazione a ripetersi che si può (e si deve) infrangere solo con degli interventi esterni.

In questo momento la parte meno disposta alle trattative è certamente Israele – tengo un momento da parte Hamas, su cui tornerò. La società israeliana ha vissuto il rifiuto dell’accordo di Camp David-Taba del 2001-02 come un tradimento dei proprî migliori sforzi, e il successivo lancio della seconda intifada come la dimostrazione che i palestinesi non fossero veramente interessati alla pace. Da lì in poi, i partiti più inclini alle trattative hanno continuato a perdere consensi (nelle ultime elezioni il partito laburista, quello che aveva governato Israele per i primi trent’anni di vita, quello erede di Ben Gurion, Golda Meir e Rabin, è sceso sotto al 10%), e l’opinione pubblica ha maturato un cinismo ben rispecchiato nella politica di Benjamin Netanyahu nei confronti del processo di pace: processo di pace? Quale processo?

Anche nello spiegare questo passaggio ci vuole un bagno di cinismo: la costruzione del Muro e la conseguente, virtuale, fine del terrorismo suicida ha privato l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) del proprio potere contrattuale. È per questo che la promessa della fine degli attentati, che negli anni ’90 era stato il principale impegno che i palestinesi avevano messo sul piatto, non conferisce la forza che aveva in sede di trattativa. Per questo in Israele si sono avvicendate due politiche: quella di Sharon e Olmert che si poteva, icasticamente, riassumere in «non ci possiamo fidare dei palestinesi, decidiamo noi cosa sarà Israele e cosa Palestina senza consultarli», e quella di Netanyahu che, altrettanto icasticamente, si può riassumere in: «non ci possiamo fidare dei palestinesi, facciamoli crescere economicamente e si dimenticheranno che gli manca uno Stato».

In questo senso Netanyahu sa che Israele non potrà mai aspirare, territorialmente, a niente più dello status quo – escludendo, ovviamente, deportazioni di massa, Ramallah o Jenin non potranno mai tornare sotto il controllo israeliano come prima degli Accordi di Oslo. Perciò il rimandare ogni trattativa è il modo migliore per evitare qualunque concessione. Allo stesso tempo, e proprio in ossequio al meccanismo richiamato sopra, l’ANP è disposta ad accettare concessioni e compromessi come mai era stato nella storia. Questa disposizione alla trattativa non può essere sempre pubblicizzata, perché non incontra il favore dell’opinione pubblica (come del resto è stato per ogni precedente trattativa, anche quelle poi andate in porto), ma è un dato di dominio pubblico almeno dalla pubblicazione dei “Palestine Papers“.

Perciò torniamo all’inizio: l’unica soluzione è l’intervento esterno di qualcuno, principalmente gli Stati Uniti ma il mondo in generale, che spezzi il circolo vizioso e avvicini – anche controvoglia – la mano meno tesa, in questo momento quella d’Israele. È questo il quadro in cui si inscrive il voto di ieri sull’ammissione della Palestina come Stato osservatore all’ONU. Delle varie obiezioni di parte israeliana a quel voto, nessuna tiene conto di questa attitudine. Nessuna mette in conto il rifiuto, a parole (o meglio, a silenzio) e nei fatti (con l’ininterrotta costruzione delle colonie), degli israeliani a qualunque trattativa. Tutti fanno presente l’unilateralità della decisione: in cambio di quel pezzo di legittimazione, che poteva essere usato nelle trattative, non è stato chiesto niente ai palestinesi.

Eppure ricordate quale fu la strada che, dopo Camp David, percorsero gli israeliani? Proprio quella dell’unilateralità. Il ritiro di Sharon da Gaza, fondato sull’idea che qualunque trattativa bilaterale fosse impraticabile, rispondeva a questa logica d’incomunicabilità. Così come la costruzione del Muro disegnava unilateralmente un confine – in diversi tratti oltre la green line, quindi illegale, ma sempre un confine. La stessa sfiducia, oggi, la vivono i palestinesi, e la vive la comunità internazionale, nei confronti d’Israele. È per questo che qualunque passo verso il riconoscimento palestinese è un passo che spinge Israele al tavolo dei negoziati, verso quella che sembra sempre di più una trattativa verticale e non orizzontale.

Due fratelli che non si parlano direttamente, che non si fidano l’uno dell’altro, e che necessitano di un terzo interlocutore – il mondo – per convivere nella stessa casa. È questa terza persona che deve farsi carico delle richieste dei due, così da evitare di personalizzarle: configurare la nascita dello Stato palestinese come una richiesta che fa il mondo, e non soltanto i palestinesi, è anche l’unico modo per impedire l’innestarsi della spirale di recriminazioni: ma loro hanno queste colpe!, anche voi avete quest’altre!, e così via. Tutto vero, ma che non aiuta. Se l’unico modo che i due fratelli hanno per parlarsi, e per convincersi che non c’è altra via alla convivenza, è attraverso la legazione del terzo coinquilino, che così sia.

Poi c’è Hamas sul quale si aprirebbe un discorso ben più lungo e complesso. Intanto c’è un dato: questo riconoscimento diplomatico è una vittoria di Mahmud Abbas (Abu Mazen), e lo è ai danni di Hamas, che ha sempre predicato l’inutilità di qualunque trattativa con un mondo al servizio degli ebrei, e che ora infatti cerca di ascrivere a sé – e all’aver “vinto” il conflitto a Gaza – i meriti della risoluzione. Nel momento in cui si dovesse convincere Israele a sedere al tavolo della trattativa, questa legittimazione risulterebbe ancora più importante. La speranza è sempre quella che un eventuale accordo di pace siglato da Fatah possa spingere un Hamas più debole a riconoscere Israele usando Abbas come capro espiatorio per le concessioni fatte: la partita principale, e cioè il braccio di ferro delle concessioni, non è su Gaza (controllata da Hamas) dove non ci sono più colonie, ma sulla Cisgiordania (controllata da Fatah).

Se si mettono assieme tutte queste cose, il riconoscimento di ieri è un piccolo (piccolo, piccolo) passo verso la pace in Israele e Palestina. Non una pace condivisa, non un cammino di riconciliazione – quello forse (forse) verrà dopo –, non l’abbraccio catartico fra due fratelli litigiosi. Solo la realistica considerazione che non essendoci modo di liberarsene, bisognerà conviverci. Insomma, come disse una volta Shimon Peres, che prima ancora di cercare la luce in fondo al tunnel, bisogna trovare il tunnel.

Alcune precisazioni sulla mappa bugiarda su Israele e Palestina

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Qualche giorno fa mi hanno segnalato un articolo che si proponeva di rispondere alle cose che avevo spiegato sul Post a proposito della falsa cartina su Israele e Palestina che gira sui social network. Il primo istinto, dato lo stile mellifluo e insinuante (solo nel primo paragrafo mi si accusa di: essere “insidioso”, di “fare finta di schierarmi con la verità”, di “ideologia sionista” e di voler “contribuire alla disinformazione” per alimentare “confusione riguardo il conflitto israelo-palestinese”), era stato quello di non rispondere: in fondo se uno è convinto che tu sia un agente della CIA, non c’è modo di dissuaderlo. Se dirai qualcosa a favore degli Stati Uniti «vedi? È un agente della CIA», se dirai qualcosa contro gli Stati Uniti «vedi? Cerca di nascondere che è un agente della CIA».

Poi, però, alcune persone mi hanno convinto a cambiare idea: intanto perché, come mi ha scritto Enrico, nell’informazione «il mantra “non esiste cattiva pubblicità, solo pubblicità” non funziona; questi blogghini vivono un sacco su un piccolo pubblico agguerrito, e sulla certezza che non riceveranno mai risposta perché appunto nessuno se li caga». E in seconda istanza perché c’è sempre, all’esterno dell’autoreferenzialità del pubblico dogmatico e agguerrito, un gruppo di persone genuinamente disposte a cambiare idea, e che magari hanno letto di sfuggita quello che ho scritto. Insomma: se non credo nel dialogo io, chi ci crede?

Perciò ho deciso di rielaborare una risposta che avevo dato su un social network, consapevole che se uno trova in qualche modo logico, intellettualmente onesto, e in una qualunque misura pertinente, ciò che è lì riportato, sarà ben difficile instaurare una discussione fondata sugli strumenti minimi, logici ed evidenziali, per instaurare un dialogo.

Le critiche che mi vengono mosse sono per lo più politiche – e di una matrice che ognuno può valutare secondo le proprie idee –, mentre il mio articolo vuole essere tutt’altro: un’opera di debunking a beneficio di tutti, nella (ingenua?) speranza che l’imprecisione storica sia nemica di tutti, e non soltanto di coloro che ne sono vittime. In tutto l’articolo, l’unica considerazione a tutti gli effetti politica che faccio è la seguente, che – da sola – sarebbe sufficiente a rispondere a tutte le allusioni sull'”opportunità” di dire le cose che uno pensa.

“La cosa peggiore [a proposito di queste mappe] è che, per descrivere l’erosione di territorio palestinese nel corso di questi decenni, non ci sarebbe bisogno di menzogne o fabbricazioni, basterebbe ricordare cosa sono i territorî del ’67, o parlare della costruzione di un numero sempre maggiore di colonie israeliane al di fuori della green line: in quattro parole, basterebbe dire la verità. Se si combatte per una causa giusta – la creazione di uno Stato Palestinese –, non bisogna usare esagerazioni o montature a fini propagandistici: altrimenti, almeno per me, si è perso in partenza.”

Quello che ho spiegato nel post, è solamente il perché quelle quattro mappe sono bugiarde, senza domandarmi “a chi conviene”, perché l’onestà intellettuale conviene sempre a chi tiene alle cose giuste. Perché, e questo è la dimostrazione che mentire non conviene mai, utilizzare la quarta mappa (quella che trova il suo criterio solo in: “la Palestina è ciò che Israele considera Palestina”) significa _negare_ l’occupazione israeliana. Se, per chi diffonde quella cartina, la Palestina oggi è quella, allora attualmente non c’è alcuna occupazione, perché quel territorio è già palestinese (e lo è, usando quel criterio, da meno di vent’anni).

Ma in fondo la cosa più significativa è che perfino l’articolo di cui sopra riconosce che le mie critiche sono giuste. Dice che quelle mappe hanno valore “simbolico” e non “geografico”. E – qui si raggiunge l’apice della cecità ideologica e del tafazzismo – che è stupido o in malafede chi non lo capisce. Eppure tante persone, ne conosco tante anche io (ed è così che ho avuto lo spunto per scrivere l’articolo), hanno diffuso quell’immagine e quelle mappe pensando proprio che quelli fossero i veri confini della Palestina, che quelle mappe descrivessero davvero l’erosione territoriale, che fossero mappe che rispondono alla verità storica e geografica del conflitto, non che fossero esagerazioni “simboliche”. Onestamente, sarebbe potuto capitare anche a me, su un tema che conosco meno. Invece tutte queste persone, quelle che hanno diffuso la cartina errata, sono stupide o in malafede?

Dopodiché l’articolo fa degli sfondoni storici giganteschi, come dire che la guerra del 48 è stata dichiarata dagli israeliani (da bocciatura al primo esame di storia contemporanea). L’unica accusa che resta in piedi è quella che io sia un agente di propaganda sionista. E su quello, beh, ognuno si esprima come vuole, e risponda al proprio senso del ridicolo: del resto, se mi becco del filopalestinese nei giorni pari, e del filoisraeliano nei giorni dispari vuol dire che o sono un lupo mannaro o c’è un problema nelle rispettive tifoserie.

EDIT: qualcuno mi chiede di commentare altri post in cui si muovono obiezioni all’articolo iniziale. Tutte le argomentazioni dei post che ho letto trovano risposta nel mio post iniziale: non ce n’è uno che, fattualmente, mette in dubbio ciò che dico. È l’effetto, credo, del fatto che queste risposte si siano messe in testa l’obiettivo “voglio difendere la causa palestinese” piuttosto che “voglio accertare la verità storica”. In ogni caso, in questo commento ripropongo in modo molto didascalico tutte i passaggi del perché quella mappa è bugiarda.

Visto che nessuno mette in dubbio la fattualità delle mie critiche, rispondo qui alle due obiezioni principali che ho ricevuto:
1) «sì, certo, è bugiarda; però è uno strumento utile per mostrare un’ingiustizia».
La mia risposta a questo è che usare mezzi bugiardi è sbagliato, anche nel combattere una battaglia giusta. Il rigore e l’onestà con cui si combattono le proprie battaglie finiscono per qualificare le battaglie stesse.
2) «sì, certo, non è precisissima, ma non è così bugiarda»
A chi dice questo, dopo tutta la spiegazione, posso solo rispondere concludendo che abbiamo standard di rigore e onestà molto diversi.

I numeri delle primarie: un fallimento?

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Molti in queste ore stanno celebrando il successo di affluenza alle primarie, che però – a guardare i numeri – non sembra essere tale.

Per farlo basta confrontare il risultato di queste primarie, di tutto il centrosinistra, con le ultime primarie, quelle del 2009 esclusivamente per la segreteria del PD. L’affluenza è stata praticamente identica, alla decina di migliaia.

Primarie PD 2009: 3.102.709
Primarie csx 2012: 3.107.568

A queste primarie c’erano due candidati esterni al PD, Bruno Tabacci che ha preso 44.030 voti, e Nichi Vendola che ha preso 485.158 voti. È certamente probabile, anche se non quantificabile, che alcuni elettori del PD abbiamo votato Vendola nonostante questi appartenga a un altro partito, ma è altrettanto probabile che alcuni elettori che non appartengono alla coalizione del centrosinistra (Fed Sin, IdV, etc) abbiano votato per Vendola (o Tabacci, probabilmente più dall’Udc) – oltre che Bersani, Renzi o Puppato –, animati dalla voglia di partecipare. Al netto di questi voti, si ha:

Primarie PD 2009: 3.102.709
Primarie csx 2012: 2.578.380

Inoltre va ricordato, in particolare a coloro che spiegano che un’alta partecipazione è particolarmente significativa in “questo periodo”, che questo periodo è un periodo particolarmente positivo per il PD, che è stabilmente primo partito in tutti i sondaggi, e che viene accreditato del suffragio più alto degli ultimi 4 anni, intorno al 30%, superato solamente dal PD di Veltroni di quasi 5 anni fa. È vero che sono soltanto dei sondaggi, ma sono gli unici numeri che abbiamo, confermati da qualunque osservatore politico che dà il PD in netta ripresa. Anche qui c’è un riferimento abbastanza attendibile: le elezioni europee del 2009 che si tennero quattro mesi prima delle primarie del PD, nelle quali il PD riscosse il 26%. Se si volesse aggiungere alle consultazioni precedenti del PD questo margine del 4% di potenziali elettori, ovvero un 15,38% sul proprio elettorato, si avrebbe questo risultato, con più di un milione di elettori in più:

Primarie PD 2009: 3.579.906
Primarie csx 2012: 2.578.380

Se si volesse addirittura raggiungere il paradosso, quello che voleva Renzi votato da elettori (o infiltrati) di centrodestra, si avrebbe uno scenario ancor più desolante:

Primarie PD 2009: 3.579.906
Primarie csx 2012: 1.474.590

Naturalmente quest’ultimo passaggio sarebbe ingeneroso, oltre che inaccurato, perché è certamente vero che molti elettori di Renzi sono effettivamente elettori del PD. Ma è un pensiero che dovrebbe sfiorare coloro che descrivevano Renzi come un oggetto avulso al Partito Democratico: perché, se le cose stessero così, queste primarie avrebbero segnato una drammatica diserzione del 60% dei proprî elettori.

In conclusione, è certamente vero che fare questo genere di stime è sempre difficile, come è vero che nel farle si finisce inevitabilmente per tagliare i numeri – come si dice – con l’accetta. È inoltre vero che un dato di partecipazione nell’ordine dei milioni è sempre un risultato positivo, quali che siano le aspettative e i precedenti. C’è però da riscontrare un fatto, che sia da addebitare alle regole farraginose e ostacolanti o all’incapacità di Renzi di coinvolgere elettori al di fuori del proprio perimetro ideologico, e cioè che i numeri della partecipazione non sono stati il successo di cui tutti parlano.

La mappa bugiarda su Israele e Palestina

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per Il Post

Quando lavoravo a Betlemme, ai tempi della prima guerra a Gaza, appesa a una parete del centro in cui facevo il volontario c’era questa mappa:

Sembrano quattro cartine molto efficaci a mostrare la progressiva sottrazione di territorio a un futuro Stato palestinese, ricordo di aver pensato. Eppure sono una frode. Una bugia creata da chi, certamente in malafede, ha giustapposto quelle quattro cartine compilate – basta conoscere un po’ la storia – usando criterî completamente diversi per stabilire cosa si intenda per “terra palestinese”, mescolando così mele e pere, al fine di dare un’idea distorta dell’evoluzione dei fatti.

La cosa peggiore è che, per descrivere l’erosione di territorio palestinese nel corso di questi decenni, non ci sarebbe bisogno di menzogne o fabbricazioni, basterebbe ricordare cosa sono i territorî del ’67, o parlare della costruzione di un numero sempre maggiore di colonie israeliane al di fuori della green line: in quattro parole, basterebbe dire la verità. Se si combatte per una causa giusta – la creazione di uno Stato Palestinese –, non bisogna usare esagerazioni o montature a fini propagandistici: altrimenti, almeno per me, si è perso in partenza.

Siccome, specie in questi ultimi giorni, vedo riaffiorare sempre più spesso questa mappa, faccio ora quello che persi l’occasione di fare, al tempo, con i bambini palestinesi coi quali lavoravo: provo a spiegare alle tante persone benintenzionate e in buona fede che diffondono quell’immagine, perché queste quattro cartine sono un’impostura.

Perché è un imbroglio (in breve)
Come detto, in queste quattro cartine si usano criterî completamente incoerenti per colorare di verde o di bianco le terre palestinesi e israeliane. In particolare, è ciò che viene definito “terra palestinese” a variare ogni volta al fine di suggerire l’idea di questo scenario fittizio: nella prima mappa è “terra palestinese” qualunque posto dove non ci siano ebrei (ma magari neanche palestinesi); nella seconda si considera “terra palestinese” quello che l’ONU aveva proposto alle due parti; nella terza si considera “terra palestinese” quella che era occupata dalla Giordania; nella quarta si considera “terra palestinese” quella che Israele riconosce come tale.

Cambiando completamente il punto di vista, si simula uno svolgimento cronologico che non ha nulla a che vedere con la realtà e che, anzi, nell’ultima immagine sembra proprio andare a detrimento delle rivendicazioni palestinesi, rinnegando gli accordi di Oslo – quelli del premio Nobel per la pace a Rabin e Arafat, quelli rigettati solo dai nemici del “due popoli, due Stati” – che sono l’unica concessione che i palestinesi hanno avuto da sessant’anni a questa parte.

Perché è un imbroglio (più approfondito)
IMMAGINE UNO: (1946) la prima immagine di quella mappa, del ’46, considera “territorio palestinese” tutto quello che non è abitato da ebrei, anche le zone disabitate, cioè la maggior parte, come tutto il deserto del Negev (andato poi a Israele proprio perché disabitato). Se si evidenziassero come territorio palestinese solo i villaggi palestinesi e come ebreo tutto il resto, verrebbe una mappa uguale e contraria. Tutto ebreo – tutto bianco – e poche macchie arabe. Sarebbe, ovviamente, una frode anche quella.

IMMAGINE DUE: (1947) l’unica onesta. È il progetto di partizione della Palestina, la risoluzione 181 del novembre ’47, che – occorre ricordarlo – Israele accettò e Stati Arabi e palestinesi non accettarono. Se entrambe le parti avessero accettato la partizione, ora avremmo un territorio diviso a metà fra Palestina e Israele.

IMMAGINE TRE: (1948) innanzitutto si parla di 1949-1967, quando invece è semplicemente l’esito della guerra che gli Stati Arabi dichiararono a Israele, e vinta dagli israeliani. Perciò è la situazione del 1948. Ed è quella attualmente riconosciuta dalla comunità internazionale. Al contrario di ciò che sembra suggerire la mappa, non c’è alcuna evoluzione dal ’46 al ’67: nel ’49, all’indomani della guerra, siamo già in questa situazione.

Anche qui, se uno volesse usare lo stesso criterio a parti invertite, e disegnare una mappa di quello che sarebbe stato l’esito se gli Stati Arabi avessero vinto la guerra, dovrebbe disegnare una mappa completamente verde: 100% di territorio palestinese, 0% di territorio israeliano. Solo che, a far così, ci si renderebbe conto che Israele, vincendo la guerra, ha sottratto ai palestinesi – con mezzi ben più che discutibili – il 20% del territorio rispetto alla 181; ma se gli israeliani avessero perso la guerra, Israele avrebbe perso, non il 20, ma il 100%. Naturalmente non è così, né in un senso né nell’altro, che ragiona chi vuole la pace.

IMMAGINE QUATTRO (1993): la più bugiarda di tutte, che gioca sull’equivoco di cosa può voler dire “terra palestinese” nella maniera più brutale e menzognera, sostituendo a “cosa è terra palestinese” o “cosa la comunità internazionale considera terra palestinese”, addirittura “cosa gli israeliani considerano terra palestinese”. Ciò che è più offensivo è che, se quella fosse pacificamente la “terra palestinese”, la pace si farebbe domani, tradendo le aspettative di quattro milioni di palestinesi.

Se queste fossero le richieste dei palestinesi, cioè ritrarsi in un territorio fatto di enclavi senza continuità territoriale, e concedere a Israele più della metà delle proprio terre post-’48 (quindi l’80% del territorio mandatario), l’accordo sarebbe già firmato: neanche il più cinico degli israeliani, neanche Avigdor Lieberman, potrebbe sperare di meglio (per dire, a Camp David-Taba, nel 2000-01, gli israeliani avevano proposto ben più del doppio di questo territorio).

Quell’immagine è un incomprensibile miscuglio della Zona A e Zona B degli accordi di Oslo del 1993 (fra l’altro considera già palestinese anche la Zona B, quando essa è tuttora sotto dominio militare israeliano). In realtà, i palestinesi rivendicano come propria – e io credo legittimamente – molto di più di quell’immagine: per lo meno la zona C degli accordi di Oslo, come viene riconosciuto loro dalla comunità internazionale. Per giunta, la mappa sbaglia la data (2000 anziché 1993), probabilmente confondendo gli accordi di Oslo con i non-accordi di Camp David.

Ciò che più indigna è che, adottando il punto di vista del più falco degli israeliani, questa mappa considera gli accordi di Oslo come il punto di arrivo di una progressiva involuzione, anziché come l’unica concessione che i palestinesi hanno ottenuto negli ultimi sessant’anni, e l’unico spazio di autogoverno che sono riusciti a ritagliarsi.

Come sarebbe un imbroglio uguale e contrario

Per spiegare più chiaramente questo raggiro, se si usasse la stessa definizione di “terra palestinese” dell’immagine 4 – e, cioè, “cosa Israele riconosce della Palestina” – per tutte e quattro le mappe si avrebbe questa situazione:

mappa 1 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 2 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 3 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 4 (in realtà datata 1993 e non 2000) con quel 41% della 181, di terra palestinese, in verde.

In sostanza, una situazione particolarmente felice e in ottimistica progressione (dallo 0% al 41%) per le speranze palestinesi di avere uno Stato. Non è così: e non c’è bisogno di mentire per aggiungere “purtroppo”.

EDIT: In questo post ho dato qualche spunto in più, e ho risposto a un po’ di critiche sceme.
EDIT2: A un anno e mezzo dalla la pubblicazione di questo articolo è stato diffuso un post spregevole, carico di insinuazioni indegne (e, ovviamente, completamente inventate), che vorrebbe mettere in dubbio le cose piuttosto elementari che scrivo qui. Al di là degli argomenti per autorità, non c’è un solo argomento che infici quanto scrivo in questo post. In questo commento ho rispiegato la questione in maniera molto didascalica, ma più in generale basta chiedersi questo: «è vero o non è vero che usando il criterio con il quale è colorata l’ultima mappa, le altre tre sarebbero completamente prive di alcun riferimento all’esistenza della Palestina?». È onesto usare il criterio che sulle prime tre mappe farebbe impazzire di rabbia qualunque sostenitore della causa palestinese, il più anti-palestinese che c’è (“ciò che Israele riconosce come Autorità Palestinese”), soltanto nell’ultima mappa, perché fa comodo nel simulare un’evoluzione storica? 

Per favore, “sproporzionato” no

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In questo avvilente eterno ritorno che ci ripropone, a distanza di anni, le stesse azioni, le stesse reazioni, gli stessi commenti, gli stessi controcommenti, vado a rileggere quello che avevo scritto quand’ero lì, in Palestina, e poi arrivò la guerra. E ci ritrovo tutte le cose che ci sono ora, uguali ad allora come a ogni altra volta, e mi annoio da solo a pensare di ripetere le stesse cose inutili, una volta ancora, pronto a riripeterle stancamente fra qualche anno. E vedendo le reazioni degli uni e degli altri, rendendomi conto di come il pubblico in platea sia spesso peggiore degli attori (che già, di per loro, sono pessimi attori), viene quasi da pensare che la soluzione migliore sarebbe che tutti voltassero lo sguardo dall’altra parte, tifosi degli uni e tifosi degli altri, e smettessero di concentrarsi su questo conflitto piccolo e infinito, in cui si combatte per il possesso di un territorio grande quando la Puglia e di uno grande quanto la Liguria, evitando le proprie venefiche attenzioni a quella striscia di terra già abbastanza gonfia di bombe e di bugie.

Come sempre, nessuno di noi sa rispondere alle domande su cui è imperniato quel conflitto, però alcuni – che in realtà hanno chiara solo una cosa: qual è il loro nemico – sono sicuri di saperle, quelle risposte. E la domanda di oggi, come di molte altre volte, è «cosa dovrebbe fare Israele quando gli piovono i razzi in casa?». Una domanda a cui qualunque persona per bene trova solo delle risposte orrende. E fra tutte le orrende risposte che si possono dare a questa domanda, l’orrenda risposta che forse sembra la meno peggio è «nulla», perché qualunque altra risposta appare ancora più orrenda.

Però ci sono quelli – quelli molto sicuri del loro nemico – che, per dire la stessa cosa, dicono con convinzione che l’attacco israeliano è stato “sproporzionato”, e in realtà stanno dicendo che Israele non dovrebbe fare nulla. Che è anche quello che penso io, che non dovrebbe fare nulla. Solo che è brutto dirlo, e allora si dice “sproporzionato”. Ma la cosa più proporzionata di tutte, che in italiano si chiama “vendetta”, sarebbe che Israele facesse la stessa cosa, uguale e contraria: montare batterie di razzi a Ashqelon e Sderot, e farli partire con l’obiettivo di uccidere il maggior numero di civili a Rafah e Jabalia. Però detta così si vede che è una cosa criminale, più criminale d’ogni altra cosa, e allora si dice “sproporzionata”, che non vuol dire nulla, ma fa sentire più in pace con la propria coscienza.

La battuta del 2012

“Gay marriage legalized on the same day as marijuana makes perfect biblical sense. Leviticus 20:13: ‘A man who lays with another man should be stoned.’  Our interpretation has just been wrong for all these years”.

Grazie a Pietrino

(ho cercato la fonte, e non è molto chiara: la prima occorrenza di una battuta simile sembra essere questa)

Vittoria / 2

Aprii questo blog quasi cinque anni fa, alla vigilia della campagna per le primarie di Barack Obama. Il mio primo post fu un suo, piccolo, sconosciuto, endorsement.

Questo, quattro anni fa oggi.

Reazioni dei toscani all’accorpamento delle province

per Il Post

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In Toscana, più che in ogni altro posto, il campanile è il campanile è il campanile. Segue una tassonomia delle reazioni dei miei corregionarî, che da ore non stanno commentando altro che il ddl che accorpa Firenze-Pistoia-Prato, Siena-Grosseto, Massa Carrara-Lucca-Pisa-Livorno.

Pisani: disperati e lamentosi, non poteva capitare niente di peggio: piuttosto che stare assieme a Livorno si vende la mamma, anzi perfino la Torre.
Livornesi: simmetrici e opposti ai pisani – ahahah, cari pisani, vi uniscono a noi (siete, e siete sempre stati, una provincia minore!).
Carrarini: disgustati dall’essere messi assieme a quei plebei dei livornesi e dei pisani.
Massesi: come i carrarini, ma meno elitarî, e almeno la gente smetterà di pensare che “Massa-Carrara” sia una città.
Lucchesi: tanto, dicono gli altri, i lucchesi si faranno gli affari loro come al solito. Loro sono sconvolti dal rischio di perdere la loro “lucchesità”, del resto qualcuno li ha mai considerati veramente toscani?

Fiorentini: Ora volete dirci che è mai esistita una qualunque provincia in Toscana a parte Firenze?
Pratesi: Dopo aver consegnato mezza città ai cinesi pur di staccarsi da Firenze, si ritrovano sotto i fiorentini, passati neanche vent’anni. Sconforto in città.
Pistoiesi: scampato il pericolo Lucca, tutto va bene. Perfino Firenze. Anzi, rifacciamo il Granducato!

Grossetani: unici tapini a essere stati sotto Siena per secoli, minacciano vendette marittime: «dobbiamo stare sotto Siena solo perché ha più storia di Grosseto? Allora i senesi sulle nostre spiagge non ce li vogliamo più». (ma non ce li volevano già prima)
Senesi: mi rifiuto di scrivere qualunque cosa riguardi i senesi.

Aretini: degli aretini non so nulla, e non ne voglio sapere – la vox populi dice che sono, ovviamente, rimasti da soli perché non li ha voluti nessuno.

(sono bene accetti contributi e integrazioni (tranne che dai pisani))


[ah, la soluzione al post precedente era Audaces fortuna adiuvat: non l’ha beccata nessuno]

Lunedì degli aneddoti – XXXIX – Una frusta dà, di uva, aceto

 4 su 5

Galileo costruì il suo primo telescopio nel 1609, e cominciò a guardare lassù. Nel frattempo aveva uno scambio epistolare, da Venezia Padova e Firenze a Praga, con un altro grande astronomo del tempo, Keplero. Galileo fece una scoperta importante, e decise di comunicarla alla comunità scientifica del tempo, fra cui Keplero. Con un anagramma. Un giocherellone? Anche, però non solo:  Leonardo metteva degli errori nei suoi progetti – il copyright non esisteva – così da non farsi rubare l’idea, allo stesso modo l’anagramma era uno stratagemma per non rivelare nulla, ma poter dire successivamente: «visto? l’avevo scoperto prima io»; del resto quante frasi latine di senso compiuto e astronomico possono prodursi con la stessa successione di lettere? Galileo scrisse:

smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras

Keplero cercò di convincere Galileo a farsi rivelare la soluzione, ma senza esito. Così decise di scervellarsi per risolvere l’anagramma, e venne fuori con questa soluzione:

Salve umbistineum geminatum Martia proles

Soluzione in un latino un po’ barbaro, come Keplero stesso ammise, e che mancava di una lettera dell’anagramma galileiano, ma che aveva un preciso senso descrittivo: benvenuti, pugnaci gemelli, figli di Marte. Keplero, convintosi in precedenza che Marte avesse due lune, pensò: le ha trovate! Marte ha due lune, come pensavo, e lui le ha osservate. Naturalmente la soluzione dell’anagramma di Galileo era tutt’altra:

Altissimum planetam tergeminum observavi

Ho osservato il pianeta più alto triforme. Al tempo, l’ultimo pianeta conosciuto (l’altissimum) era Saturno, e Galileo aveva visto attraverso il proprio telescopio – che nel frattempo aveva perfezionato – i famosi (ora) anelli di Saturno. Le tre forme a cui si riferiva Galileo erano un’approssimativa descrizione degli anelli, che in prospettiva gli erano sembrati altri due corpi orbitanti attorno a Saturno (“ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme”). Fu solo nel 1877, più di duecento anni dopo, che si scoprì che anche Keplero aveva ragione (sbagliando): Marte ha due lune.

Poco tempo dopo, Galileo fece un’altra scoperta e – indovinate un po’ –  inviò un altro anagramma che Keplero lesse:

Haec immatura a me iam frustra leguntur oy

Questa volta, a parte il sofferente “oy” finale, la frase aveva un senso compiuto, più o meno: ho raccolto queste cose invano e prematuramente. La frase nascosta dietro a questo lamento era:

Cynthiae figuras aemulatur mater amorum

La madre dell’Amore emula le figure di Cinzia. Cinzia è la Luna, e Galileo aveva scoperto che la madre dell’amore – Venere – ne emulava i movimenti, e cioè che anche Venere ha delle fasi, come quelle lunari: intera, a metà, un quarto, etc. Il che suggeriva che Venere girasse intorno al Sole, con le enormi conseguenze in direzione dell’eliocentrismo che questa conclusione implicava.

Solamente che, anche questa volta, Keplero si era cimentato nella decodifica dell’anagramma prima che fosse resa pubblica la vera soluzione. Ed era riuscito a tirare fuori, fra le altre, una frase di senso compiuto:

Macula rufa in Iove est gyratur mathem ecc.

Giove ha una macchia rossa che rotea seguendo principî matematici. Ora, indovinare per caso – o per successione matematica – che Marte ha due lune è una coincidenza, ma non così gigantesca. Quante lune può avere Marte? Zero, una, due, cinque, dieci. Dice due, e ti va bene.

Perché sì, Giove ha una macchia rossa, e sì, essa non sarebbe stata individuata con precisione fino a duecento anni più tardi. Che dire? Una frusta dà, di uva, aceto.

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