Lunedì degli aneddoti – XXVII – Zzzzzz

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Zzzzzz

Qual è il più grande portatore di morte nella storia del mondo? La guerra? L’odio? Il denaro? No, le zanzare. C’è chi le odia visceralmente e chi, come il sottoscritto lo confesso, non le ammazza neanche. Eppure sembra che abbiano ragione i primi: ogni 12 secondi, nel mondo, una persona muore per il morso di una zanzara.
Poi ci sono quelli che si vendicano, ricordo di aver letto qualche tempo fa di alcuni scienziati che avevano tolto, in laboratorio, il recettore che dava alle zanzare il segnale di “bottino pieno”. Quelle continuavano a succhiare sangue fino a esplodere.
Eppure la scoperta delle zanzare come organismi forieri di malattie è decisamente recente: soltanto nel 1877 Patrick Manson formulò l’ipotesi che le zanzare potessero essere il mezzo di trasporto delle malattie, e fu Ronald Ross vent’anni dopo a dimostrare che la malaria fosse portata proprio dalle zanzare, e – per questo – a vincere il Nobel. Curiosamente il comitato del Karolinska Institutet, quello che assegna il Nobel per la medicina (e fisiologia), ignorò completamente l’apporto di Manson, sia teorico che pratico. E non si poteva dire che non ci mettesse sé stesso, e anche di più: la prima ipotesi che fece sull’acquisizione, da parte delle zanzare, degli agenti patogeni attraverso il sangue che succhiavano, fu testata su delle zanzare a cui aveva fatto mordere il proprio cameriere affetto da elefantiasi. E non si fermò qui: a conferma della teoria enunciata dal collega Ross, Manson fece mordere il proprio figlio a delle zanzare infette del parassita responsabile della malaria che si era fatto mandare dallo zoologo italiano Giovanni Battista Grassi. Qualche giorno dopo, effettivamente, il figlio si ammalò di malaria, per poi riuscire a salvarsi con massicce dosi di chinino. Certo non si può dire che Manson non tenesse alla propria scoperta!

E infine una digressione personale: quando ero in Burkina Faso (dove avevo anche toppato la diagnosi di una malattia tropicale: pensavo fosse l’acqua, era una zanzara) – Parlavamo dei diritti delle donne, e di come fosse difficile incidere veramente – mi hanno riferito il proverbio Burkinabè: “Se pensi di essere troppo piccolo per cambiare le cose, prova a dormire in una stanza vuota con una zanzara”.

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Lunedì degli aneddoti – XXVI – Dumas

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Dumas

Se dico Dumas uno che ne sa dovrebbe chiedere «ma chi? Dumas padre o Dumas figlio?» E la risposta sarebbe: «tutti e due!». Certo uno che ne sa, magari saprebbe anche l’aneddoto quindi non ci sarebbe bisogno di raccontarlo. E allora si spingerebbe a raccontare che il padre è quello dei Tre Moschettieri (e di d’Artagnan!) mentre il figlio è quello della Signora delle camelie, più noto per averci permesso di libar ne’ lieti calici attraverso un giro particolarmente strano (ora non pensate che tutte queste cose io le sappia a memoria, no, per gli Aneddoti del lunedì si studia!). Poi, vabbè, sulla Signora delle camelie ci sarebbe un sacco da dire, più male che bene, per aver creato stuoli di adoratori, ma soprassediamo.

Dumas padre era figlio di un generale napoleonico, ma ci litigò e fu cresciuto dalla madre da cui prese il cognome. Dumas figlio non fece lo stesso, perché prese nome e cognome del padre, Alexander Dumas anche lui. Una cosa fece come il padre, oltre al nome, cioè litigare con il proprio, di padre, ovvero Dumas padre. Così ci fu un periodo in cui i due Dumas non si parlavano, e quando erano costretti a farlo per ragioni pratiche non rinunciavano a trattarsi come sconosciuti, e a darsi del “voi”. Ciò nondimeno appena finito il suo romanzo, il succitato La signora delle camelie, Dumas figlio volle farne avere il manoscritto al padre. Qualche giorno dopo questi lo fece chiamare, per dirgli: «la vostro operato è stupendo, signore». Al che, Dumas figlio rispose: «signore, sono ancora più contento di un tale complimento perché viene da una persona di cui ho sempre sentito molto bene da mio padre».

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Lunedì degli aneddoti – XXV – La fuga

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La fuga

La leggenda di Samarcanda, poi cantata da Vecchioni, rimodulava l’eterno tema dell’ineluttabilità del destino: non si può eludere ciò che il fato ci ha assegnato, e se si prova a scappare si finisce per non far altro che andargli incontro. In quella storia c’era un soldato che intravvedeva la morte, e cercava in tutti i modi di fuggirle, per poi ritrovarsela davanti a centinaia di chilometri di cavalcate, con in bocca la frase: «ti aspettavo».
Ce n’è una versione più moderna e, forse ancora di più del destino, è una nemesi. Quasi un insegnamento a liberarsi dalle proprie paure, perché altrimenti se ne finisce ingoiati.

La storia è quella di una coppia di pacifisti canadesi. Per quanto il Canada, agli inizî degli Anni 80 – dove la loro storia è ambientata – non sembrasse il luogo più esposto al rischio di uno scontro bellico, i due erano terrorizzati dal possibile scoppio di una guerra. Da un giorno all’altro sarebbe potuta scoppiare la terza guerra mondiale, pensavano ossessionati, e questa avrebbe coinvolto anche il Canada. Così, nonostante – si può immaginare – tutti gli spiegassero che l’eventualità di vedere dei carri armati alle porte di Toronto fosse davvero remota, presero la decisione di partire. Per dove? Chissà, il posto più lontano dalla civiltà, dai centri chiave di un possibile conflitto, un luogo dove anche soltanto la notizia di una guerra non sarebbe giunta loro. Presero un atlante e lo studiarono a fondo; fino a quando non riuscirono a isolare un minuto arcipelago dell’emisfero australe, quasi disabitato e popolato di sole pecore. Era quello che cercavano: portarono con loro i figli, i proprî averi, e si trasferirono lì.
Il 2 aprile del 1982 scoppiò la guerra delle Falkland.

da qui

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Lunedì degli aneddoti – XXIV – Saluti

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Saluti

Che il saluto italiano per eccellenza venga dal Veneto, e voglia dire “schiavo”, nella forma di cortesia “tuo schiavo”, lo sanno un po’ tutti. È una parola che ha avuto un tale successo da colonizzare un sacco di altre lingue, anche se tutti faticano a capire come in italiano si dica “ciao” sia quando l’interlocutore arriva che quando questi va via, così tradendone un po’ l’etimologia verosimilmente originatasi per un incontro e non per un commiato.

E l’invenzione di Edison? No, non la lampadina (che è pure disputata) ma una cosa perfino più comune: hello. Per quello bisogna tornare a un’altra invenzione disputata, quella del telefono: provando per la prima volta il nuovo congegno, Thomas Edison espresse la propria sorpresa con l’equivalente di “accidenti” nell’inglese di allora, ovvero «hullo». Quella quasi-interiezione di Edison, mal trascritta, soppiantò presto l’originario «ahoy», che era più facile da perdere nei disturbi delle linee.

Da lì l’espressione “Hello”, per rispondere al telefono, si è fatta strada a tutti i capi del mondo, ed è trasversale: dall’arabo all’ebraico, dal solitamente sciovinista francese al russo. Fra i pochi che non rispondono al telefono con “hallo”, ci sono gli italiani. Nel Belpaese si dice “pronto”, una parola che non ha nulla a che vedere con un saluto e di cui mi è più volte capitato che gli stranieri mi chiedessero conto.
Anche per questo, ovviamente, c’è una ragione: le prime telefonate venivano effettuate tutte attraverso degli operatori, ed era a questi terzi che si diceva dove indirizzare la telefonata. Lo stesso operatore, poi, metteva in contatto il chiamante con il ricevente; ma non prima di essersi accertato che il ricevente fosse desideroso e in grado di ricevere la chiamata. E così la chiamata vera e propria cominciava quando chi riceveva la chiamata diceva – appunto – di essere “pronto”.

Grazie a Matteo

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Lunedì degli aneddoti – XXIII – Fare il portoghese

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Fare il portoghese

Alcuni, specie a Roma, lo sanno già. Ma molti non sono a Roma, e molti non lo sanno: perché si dice “fare il portoghese” per dire entrare a sbavo o non pagare il biglietto? È una cosa simil-razzista come la tirchieria di genovesi, ebrei o scozzesi? Oppure una tipizzazione sociale come lo svizzero preciso, e il giapponese laborioso? In ogni caso i portoghesi non ne escono bene, quanto a propensione allo scrocco.
E pensare invece che , poveri portoghesi, erano loro le vittime di un tiro: accadde che l’ambasciatore presso la Santa Sede del re Manuel I del portogallo avesse organizzato a Roma uno spettacolo con banchetto al quale sarebbero stati invitati tutti i portoghesi che abitavano a Roma. Non era previsto invito formale, bastava presentarsi all’ingresso e spiegare di essere portoghese.
Inutile dire che al Teatro Argentina si presentò una folla di romani che non avevano nulla a che fare col Portogallo ma che, appunto, “fecero” i portoghesi per poter assistere allo spettacolo gratuitamente.

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Lunedì degli aneddoti – XXII – Che bisogno c’è?

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Che bisogno c’è?

Di aneddoti su Napoleone ce ne son così tanti che uno deve rassegnarsi a raccontarne bona-parte. Questo per mutuare quella lì, apparsa sulla statua del Pasquino – anche lei foriera di tante di quelle storie – a Roma, dopo le scorribande napoleoniche nella penisola, che fruttavano alla Francia opere d’arte che sparivano dall’Italia: «È vero che tutti i francesi sono ladri?» «No, ma Bona Parte sì».

C’è poi quell’altra del Napoleone che la mattina della battaglia di Waterloo aveva detto «stasera saremo a cena a Bruxelles», la stessa giornata che era finita con il caustico – e celeberrimo – commento del generale Cambronne: «merde!».
E poi c’è la volta del marchese Laplace, quello del teorema che ci rincorre dai tempi del liceo. Laplace fece omaggio a Napoleone di una copia del suo libro, Esposizione sui sistemi del mondo, in cui spiegava la sua comprensione scientifica del “creato”, è il caso di mettere le virgolette; Napoleone – a cui piaceva sempre mettere in imbarazzo il proprio interlocutore era venuto a sapere della mancata menzione di Dio nel manoscritto di Laplace, così domandò: «Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come mai non abbiate lasciato spazio all’azione del Creatore». Laplace, che era un feroce difensore del suo lavoro, rispose essenziamente: «Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di tale ipotesi».

Napoleone ne rise di gusto, e andò a raccontare l’episodio all’italiano Lagrange che ammise «è una bella ipotesi! Spiega molte cose».

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“Repubblica corrompe Google in chiave anti-Berlusconi”

Qualche tempo fa avevo inaugurato una categoria per tutti i complotti assurdi che venivano partiriti dalle menti diaboliche, quelle sì – perché per architettare la figurazione di certe assurdità, anche solo nella tua testa, devi avere del diabolico – di tanti che spiegavano qualunque argomento. L’uno, e il suo contrario, è un complotto. Difendi gli USA? Sei pagato dalla CIA. Critichi gli USA? Stai cercando di occultare il fatto che sei pagato dalla CIA.

Avevo chiamato la categoria “il di dietro”, in ossequio a quelli che – dopo aver fatto mille previsioni strampalate – alla milionesima ci azzeccano e vengono a rivendicare quella misera unica previsione, in mezzo alle centinaia dimenticate (chi si ricorda, ora, di quelli che dicevano che avrebbero ucciso Obama prima che andasse al potere?).

Ieri ne è girata un’altra, assurda. Quella per cui google avrebbe filtrato le foto di Berlusconi. Secondo tanti genî del male, e anche qualche insospettabile, google avrebbe cancellato le foto del volto insanguinato di Berlusconi rispondendo all’ordine dall’alto di chissà chi. Sto dando una mano ad AP – intern sfruttato, non di più – ora, ed ero in ufficio al momento del fatto, e con esso tutta la diretta. Ecco, a parte il fatto che le foto hanno girato fin da subito su tutte le televisioni, erano l’indomani su tutti i giornali. Il colmo è che su Google News (Italia), fidatevi, la foto di berlusconi insanguinato ha campeggiato come prima notizia per tre giorni. E pure su google video si trovano un sacco di filmati della faccenda.  Come del resto se si cerca su google standard si trovano articoli con foto del fatto di Piazza del Duomo.

Ovviamente Google ha spiegato che è un’invenzione. E vabbè. Ma la cosa, ancora, assurda è che uno si deve mettere in pace con ciò che pensa: cioè, se sei di quelli che ha scritto in lungo e in largo che quello che è successo è male perché favorisce Berlusconi  – insinuando che, invece, non fosse stato per quello, spaccargli due denti… – che così ha guadagnato l’appoggio della nazione, che è balzato in avanti nei sondaggi, etc. poi dovresti spiegare perché Berlusconi dovrebbe voler censurare le foto che vanno a suo vantaggio.

Anzi, strano che non ci sia stato qualcuno a destra – non meno bravi della sinistra a inventare complotti  – che non abbia detto che è stato “il Popolo Viola” o “Repubblica” a imporre a Google la censura.

Lunedì degli aneddoti – XXI – A che ora è la fine del mondo?

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A che ora è la fine del mondo?

L’avevo raccontato quando ero in Palestina, ma merita di stare anche qua: una degli aspetti minori della questione arabo-israeliana, e della vita dei palestinesi da “occupati” è che c’è sempre questo equivoco fra l’essere uno stato a sé e il dipendere militarmente ed economicamente dalla forza occupante. Ci sono quindi tentativi, anche comprensibili, di distinguersi sotto qualunque aspetto da Israele per affermare la propria diversità, e quindi indipendenza. Sforzi che però, necessariamente, si scontrano con la necessità di non complicare troppo la vita ai palestinesi che lavorano in Israele: fino alla seconda intifada quasi la metà di tutti gli abitanti della Palestina.

I giorni festivi, ad esempio, sono scelti autonomamente: quindi dove in Israele il giorno festivo è il sabato, in Palestina il sabato è lavorativo, anche se – ovviamente – per coloro che lavorano in Israele, le festività sono quelle del nemico, e questo potenzialmente condiziona l’intero sistema economico palestinese: servono gli autobus, qualche negozio aperto, etc. È il medesimo, invece, l’orario: Israele adotta un fuso europeo (GMT+2, quello della Grecia), e in Palestina si segue lo stesso. Ma c’è un’eccezione, ed è l’ora legale: il rientro all’ora solare non è mai contemporaneo, specie se c’è una coincidenza con il Ramadan. In tal caso, in Palestina come in tutti i paesi arabi, l’ora solare legale viene sfruttata con il principio contrario a quello cui siamo abituati – ovvero di risparmio energetico: solitamente si ritarda il ritorno all’ora solare il più possibile per guadagnare luce, in Palestina – sotto Ramadan – si anticipa l’ora solare per anticipare il buio, e cioè il tramonto (così per riniziare a bere mangiare).

In questo modo, però, ci sono due settimane in cui c’è un bel trambusto, perché a ogni passaggio di check-point cambia anche l’ora, e le incomprensioni sono all’ordine del giorno. La più clamorosa – assieme macabra e grottesca – fu il caso di tre terroristi palestinesi, una decina di anni fa, che stavano portando in Israele delle auto-bomba fabbricate nei Territorî così da farle esplodere nell’ora di maggior affollamento nei mercati di Haifa e Tiberiade.
Il piano consisteva nel parcheggiarle lì pochi minuti prima che esplodessero, per avere il tempo di allontanarsi dal luogo dall’esplosione, senza però rischiare che le automobili fossero notate e disinnescate.
Soltanto che gli attentatori non avevano considerato il fatto che il timer degli ordigni era stato tarato sull’orario palestinese – ancora non passato a quello solare, come in Israele – e quindi un’ora in avanti sui loro orologi.
Alle 17.30 in punto, mentre i tre sprovveduti attentatori si stavano ancora dirigendo sul luogo del potenziale massacro, gli esplosivi di cui erano imbottite le automobili scoppiarono per strada, con i tre attentatori come uniche vittime della detonazione.
Il colmo è che questi non erano terroristi-kamikaze, non avevano intenzione di suicidarsi nell’esplosione, come in altri casi – ma soltanto di fare una strage.

Questa prestazione valse loro un Darwin Award, premio che – come recita l’epigrafe – onora coloro che migliorano la specie umana semplicemente rimuovendosi da essa.

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Lunedì degli aneddoti – XX – Il gallo nero

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Il gallo nero

Forse il punto migliore da dove cominciare a raccontarla è la Juventus, i gobbi, come li chiamano tutti i non gobbi.

Che nelle regioni dell’estremo sud, Sicilia, Calabria, anche Basilicata ci siano un sacco di tifosi della Juve è cosa nota, assieme a quelli che tifano per il Milan e per l’Inter: si capisce anche, di squadre con tradizioni calcistiche affermate non ce ne sono molte, e allora si ripiega sulle strisciate.
Ma c’è un altro buco nero di juventinite, in Italia, ed è la Toscana. Ma come? Proprio dove c’è la Fiorentina, la squadra che più odia la Juve? Appunto!
Fateci caso, tutti i posti della Toscana, Prato, Siena, Pisa, Viareggio, anche Arezzo o Pistoia son pieni di juventini. E il paradosso è che, invece, a Grosseto, che è la provincia toscana più distante dal capoluogo sono tutti per la Fiorentina. Sembra assurdo, ma la ragione è semplice: tutte le città, nel medioevo, erano dominate da Firenze, e quindi odiano i fiorentini, l’unica che era sotto Siena, Grosseto, odia i senesi, e tifa la Fiorentina!
Direte voi: ancora? Ma non è possibile, 800 anni dopo quelle battaglie c’è ancora un lascito di quel genere?

Di più. Pensate che ogni anno a Siena-Fiorentina, i tifosi bianconeri – sì, hanno anche i colori della Juve! – espongono striscioni che inneggiano a Montaperti, battaglia campale che vide la vittoria senese (l’unica che vinsero, parola di fiorentino!).
E il Gallo Nero che c’entra? Non è un vino? Sì, certo, è un vino, il Chianti Gallo Nero. Ma da dove prende il nome? Sempre da lì.

Vuole la leggenda che per mettere fine ai reiterati conflitti fra Firenze e Siena, e dirimere la principale ragione di contesa fra le due potenze toscane – ovvero la sovranità di tutta la zona del Chianti, a sud di Firenze e a nord di Siena – si fosse organizzata una tenzone davvero particolare: essendo molto difficile tracciare un confine mediano, anche in ragione dei limitati strumenti del tempo, si decise di lanciare i due migliori cavalieri di ciascuna città in direzione dell’altra: il punto di incontro dei due uomini a cavallo sarebbe divenuto il confine, e avrebbe sancito la spartizione delle colline del Chianti.
I due paladini sarebbero partiti, da dentro le mura cittadine, al cantare del gallo: una delegazione di fiorentini fu inviata a Siena, per controllare la regolarità della partenza, e così una delegazione di senesi a Firenze. I senesi scelsero un gallo bianco, e lo rimpinzarono di cibo convinti che questo gli avrebbe dato più energie al risveglio, mentre i fiorentini fecero esattamente l’opposto: non solo cromaticamente, il gallo nero fu lasciato al digiuno più impenitente.

La mattina della contesa il gallo nero, stretto dai morsi della fame, si destò e cominciò a cantare ben prima dell’alba: il cavaliere fiorentino non aspettava altro, e partì – è il caso di dirlo – a sprone battuto. Intanto a Siena si aspettava ancora il chicchirichì del gallo bianco; anche quello arrivò, ma arrivò – puntuale – all’alba, quando il cavallo fiorentino aveva già calpestato tutto il Chiantigiano: l’incontro fra i due cavalieri avvenne a una dozzina di chilometri da Siena, in località Fonterutoli, sancendo così il passaggio – di fatto – dell’intero Chiantigiano alla Repubblica Fiorentina.
Quando poi, nel 1384, Firenze costituì, in funzione deliberatamente anti-senese, una lega diplomatico-militare fra i propri alleati dell’area, la Lega del Chianti, questi scelsero come stemma – manco a dirlo – un gallo nero.

Grazie a Andrea

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Lunedì degli aneddoti – XIX – (Very) Nouvelle Cousine

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(Very) Nouvelle Cuisine

Delle volte mi chiedono «che hai studiato?», io rispondo Filologia Romanza e la domanda diventa «che hai studiato?!?». Allora a quelli più romantici racconto di Lancillotto e Ginevra, di Tristano e Isotta. A quelli più pragmatici racconto questo: le lingue sono corpi pieni di storie, aneddoti, prese in giro, raccontate dalle parole, dai nomi di luoghi e di persone. Così, per esempio, tutte le “rive” sopra a Rimini e La Spezia rimangono rive, come la Riviera Ligure o Riva del Garda; invece tutte le rive al meridione di Rimini e La Spezia diventano (in realtà è vero l’opposto, son le ripe a diventare ribe e poi rive) “ripa”, come Bagno a Ripoli, come Marina Ripa di Meana, come via di Ripetta, dove un tempo passava il fiume.
Per tutte le parole? Beh, no. Quelle facili. Dicevamo fiume, ecco fiume. Il fiume in latino era flumen. Poi “fl” non riescono più a dirlo e diventa “fi”. Come il florem, diventato fiore. E quelle difficili? Beh, quelle no. Quelle rimangono ancora per un po’ in latino, e difatti ce le ritroviamo con un bel “fl” intatto: floreale, fluviale – gli aggettivi relativi, già son più difficili. Però che vuoi che cambi. Fiore, floreale, siamo lì. Macchiato, maculato, stessa solfa, anche se – certo – se proviamo a chiedere al bar un latte maculato il barista ci guarda un po’ storto.
Poi però arrivano gli inglesi. Cioè, quelli che arrivano sono i francesi, perché gli inglesi sono – ehm, perdonate – dei buzzurri. O meglio, quelli che non sono del volgo – quelli che frequentano l’alta società – parlano in francese. Così arrivano i francesi e gli insegnano tutto, gli insegnano tutto e glielo insegnano in francese. L’inglese non è una lingua latina, però se andate a vedere tutto il lessico più del 70% è di origine latina diretta o indiretta: solo che son le parole difficili! E così “re” si dice “king”, che è germanico, ma reale – sempre l’aggettivo relativo – si dice royal, che se lo pronunciate con l’accento sulla “a” sapete da dove viene. E sinistra? Beh, sinistra si dice “left”: non è latino, perché è facile. Però in italiano si dice anche una cosa sinistra, un concetto un po’ meno immediato. E come si dice in inglese? Già, “sinister”.
Ma la cosa più bella, io dico, è questa: quelli, dicevamo, non sapevano far nulla: neanche cucinare! Arrivano i francesi e glielo insegnano. Bravi. E allora che succede? Che i nomi degli animali che si mangiano, in inglese, si dicono in francese: direte, ma come, “Cow” “Lamb” “Pig”, per dire i tre animali che si cuociono di più, non suonano mica latini. Appunto! Perché quegli stessi animali, cotti, diventano francesi: beef, che viene da boeuf, bove. Mutton, il montone, Pork, il porco. E pensate un po’ che ci sono anche quelli che fanno avanti e indietro, come il bove, diventato beef, poi beef steak, pezzo di carne, e tornato al di qua della Manica e al di qua delle Alpi come beef-steak, bistecca. Magari una bella Fiorentina.

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo]

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